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GERENZANO – Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta dell’educatrice Loredana condivisa da Corpo Musicale di Gerenzano sul particolare periodo che stiamo vivendo.

Scelgo di scrivere questa lettera senza sapere di preciso a chi destinarla, senza sapere ancora chi la leggerà; accade perché in questo momento drammatico, triste e delicato per il nostro tempo, io non appartengo a nessuna categoria.
Ora, non ho mai aspirato né bramato l’appartenere ad una o ad un’altra categoria, ma capite che questo porta all’impossibilità ora, di dar voce al mio pensiero.

In un mondo social, scelgo carta e penna: deformazione o formazione. Scelgo carta e penna e scrivo senza aver un destinatario specifico. La mia non è una forma di protesta, né una provocazione; non vuol essere un modo per cercare capri espiatori o dar la caccia alle streghe, sono una donna le streghe le ho sempre amate!

La mia è una storia, che forse al di fuori delle mura della quarantena in cui ci troviamo tutti costretti, ha storie simili che non sanno di esserlo. Scrivo dunque per darle una forma, per darmi forma, per darmi luogo, tempo e spazio. Scrivo perché vorrei dire che, fino a febbraio ero educatrice professionale, lo sono dal 2003 circa.

La mia è una professione del sociale, riconosciuta da un titolo di laurea; a novembre (forse) né avrò un secondo di titolo, sarò pedagogista: anche questa è una professione del sociale.
Non è con ironia che scrivo queste parole, è che in questi giorni sto continuando a ripetermele a voce alta: a volte con un fare calmo, ragionevole e meditativo, a volte masticandoci insieme un bel po’ di rabbia, a volte rigurgitandole fuori come in un flusso di coscienza che Joyce avrebbe gradito.

Le pronuncio ad alta voce per renderle reali, perché nulla è improvvisamente più reale, neppure il mio lavoro.
Nella mia professione in questi anni ho avuto la fortuna, l’onore e l’onere di incontrare tante storie, dentro tante umanità diverse tra loro; alcune etichettate come fragili (come se ne esistessero di non fragili) che poi si sono trasformate, che grazie al mio lavoro ho aiutato a trasformarsi e che mi hanno trasformata.

Ho incontrato, parlato, ascoltato, giocato, scritto di tante e con tante storie, di tante e con tante persone.
Fino a febbraio collaboravo ad un progetto sperimentale di dopo scuola fuori dalle mura della scuola, con un’associazione di promozione sociale e solidarietà famigliare; avevamo un gruppo di bambini e ragazzi, un gruppo di famiglie, io collaboravo nel ruolo di educatrice professionale, quello che faccio dal 2003 circa.

Il coronavirus toglie l’aria a chi ne viene contagiato; il coronavirus toglie l’aria anche se non ne si è direttamente colpiti.
Mi sento così, senza aria, in affanno; senza poter dire né condividere il mio sentire : mi sento fragile e ai margini come le tante persone che nella mia professione ho incontrato in questi anni.

Sospesa in un NON spazio, in un NON luogo in attesa di sapere che forma prenderò, o forse NON prenderò dopo tutto questo.
Il mio contratto di collaborazione occasionale, l’ultimo di una serie lunga e variegata, oggi mi rende al pari di chi lavorava a nero: forse tra poco con il REM (reddito di emergenza) potrò rientrare in questa fascia, avrò una categoria a cui appartenere, una categoria indefinita che raggruppa tanti senza dar voce né dignità a nessuno!

Nella mia testa passano tanti pensieri, scorrono come in un film tante immagini; girano certi giorni così vorticosamente da farmi vacillare, mi disorientano tanto da non saper più chi sono, tanto da cercare uno specchio per guardarmi e riconoscermi in volto. È una sensazione devastante, tra l’impotenza e l’estrema consapevolezza, una sensazione che ferisce, mi ferisce, mi fa piangere e stare ore in cerca di soluzioni creative, alternative, o a cercare forme nuove…

Nella mia professione ho imparato a stare.
Nella mia professione ho imparato ad attendere, le risposte arrivano sempre col tempo, sulla lunga distanza: questa è come altre, una professione di cura, e la cura implica pazienza, attesa, rispetto.

In questo tempo di chiusure, di lockdown, perché dirlo in inglese ci fa sentire più competenti, credo sia importante aprire!
Aprire, creare varchi, creare possibilità di incontro di dialogo. Canali di comunicazione per permettere a tutti di dar voce ai propri vissuti, ai propri pensieri, non in una privata ed individuale riabilitazione personale o ad personam. Aprire per creare o ri-creare collettività, comunità di pratiche nuove, pensate, ri-pensate
insieme. Questa lettera non ha destinatario anche perché i destinatari possono, potrebbero, potranno essere molteplici.
La mia voglia di metter per iscritto il mio pensiero e condividerlo è nata da una foto che ho scattato da casa in questi giorni.
Nella foto c’è un dettaglio vivo, una foglia verde: la Natura viva che r-esiste ancora!

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